(D.D.M.) – Di Etna ormai se ne parla parecchio e dovunque. Ma qui vorrei lasciarvi immergere nel racconto di un uomo che ha dedicato tutto sé stesso alla sua terra. La mia chiacchierata-intervista è stata lunga e pertanto anche questo scritto lo è, ma non ho voluto appositamente sintetizzarlo perché lo ritengo bello, intenso, appassionato, ricco di tanti spunti ed anche senza “peli sulla lingua”, come succede di rado. Mi auguro abbiate la costanza di riuscire a leggerlo fino alla fine.
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Le “esternazioni” del vulcano hanno accompagnato l’anno della pandemia con mirabolanti spettacoli pirotecnici, riponendolo al centro dell’attenzione per la sua unicità e bellezza. Una bellezza che ti rimane dentro e che ti fa provare tanta nostalgia anche quando ne sei lontano.
Solitamente le sue colate laviche sembrano terreni sterili mentre invece sono fertili e coltivabili, ricchi di minerali. Le sue contrade sono luoghi storici che puoi ben immaginare dal significato dei nomi così descrittivi: hanno strani confini che si sovrappongono e che conducono in un passato visceralmente legato a questa natura aspra e suggestiva.
L’Etna è un mondo molto distante da noi che viviamo nelle grandi città, ma che ti seduce in silenzio. Non riuscirai mai a conoscerlo in tempi brevi, anzi forse solo vivendoci, ma dentro ti lascia di certo il segno e promesse di seduzione infinita.
Solo chi qui è nato o vissuto da sempre è veramente padrone di questi luoghi, dove il tempo scorre in una maniera diversa.
E allora mi sono rivolta ad un protagonista del Vulcano, un uomo che gli ha dedicato la vita, allevando i suoi vitigni autoctoni con grande rispetto e conoscenza profonda del suo territorio e delle sue tradizioni.
E’ anche definito il custode della viticoltura etnea del passato: l’enologo e produttore Salvo Foti.
Salvo, perché hai deciso di avere questo ruolo nell’attuale panorama dei produttori Etnei?
Forse proprio perché non sono attuale…
Ho continuato l’attività così come facevano mio nonno e mio padre e posso dire di aver fatto anche una scelta di vita, non solo produttiva. Mi piaceva continuare a vivere le cose ed il territorio della mia infanzia, e per far questo è stato innanzitutto necessario custodirlo. Il vero viticoltore etneo per prima cosa deve costruire una terrazza, cioè la protezione per la sua futura attività.
Per me fare vino è stata una cosa naturale: ovviamente per trarne reddito, ma ancor più per riuscire a mantenere un preciso stile di vita. Oggi il vino ha un valore anche sociale e culturale, dunque un bel valore aggiunto per un prodotto agricolo che più di altri produce redditività e genera business. Inoltre io faccio cose che in pochi fanno e che sono diventate per me un’ulteriore opportunità. Per esempio, il palmento è una pratica che non si impara studiando, ma la si può solo tramandare ed è per questo che spesso non viene usato. E allora in alcune start-up di aziende vinicole, e in altre che me l’hanno chiaramente richiesto, ho fatto riutilizzare il palmento esistente dal momento che sono in grado di offrire conoscenza e consulenza al riguardo.
Lo stesso vale per la costruzione dei muretti a secco: non basta vederli fare una volta, si tratta di pratiche manuali che necessitano di essere vissute e seguite per lungo tempo. Si tratta anche di acquisire una visione globale per riuscire a trasformare un’opera incerta (fatta di pietre) in una sicura e abbastanza stabile.
Le terrazze e l’allevamento ad alberello sono i tuoi punti cardine. Perché?
Perché sono lo strumento di conservazione di un territorio particolare come quello etneo. I suoli sono sabbie vulcaniche, terreni incoerenti che hanno bisogno di un contenitore al momento delle piogge abbondanti. Sull’Etna ci sono da sempre per questo motivo: intere generazioni hanno usato le terrazze perché solo così era possibile mantenere il terreno, coltivarlo ed ottenerne reddito. Di certo hanno un costo economico che non è ammortizzabile nel giro di una vita, ma la cosa deve essere vista in prospettiva, qualcosa da lasciare in eredità alle generazioni successive.
I muretti a secco non possono comunque essere sostituiti dal cemento per il fatto che solo la pietra riesce a far passare l’acqua ma non il terreno. Certo, ogni tanto se ne distrugge un pezzo, ma lo si può tranquillamente ricostruire senza particolari danni. D’altronde in questi luoghi solo ciò che possiede capacità di adattamento agli eventi è destinata a durare nel tempo.
L’importanza dell’allevamento ad alberello risiede invece nel fatto che la pianta crea un reticolo di radici capace di trattenere il terreno, a tutto vantaggio della conservazione del territorio. L’unico aspetto negativo è rappresentato dal costo economico: parliamo di una manodopera specializzata, con conoscenze acquisite non in una scuola specifica (che tra l’altro non esiste), ma sul campo attraverso l’esperienza.
Negli ultimi cinquant’anni si sono abbandonate molte attività manuali che trasferivano conoscenze specifiche: si andava “a bottega” con l’obiettivo finale di poter far meglio del “maestro” che “ti insegnava per poi doverti perdere”. Esisteva uno scambio di vita che è sparito quando è subentrata una serie di nuove abitudini legate alla meccanizzazione.
E ne hanno pagato il prezzo tutte quelle attività puramente manuali: mente e mani dovrebbero sempre lavorare insieme per far nascere “opere di creatività”: oggi noi usiamo le mani per fare tante cose, per trasferire dati, soldi, … ma poco per “creare”, mentre in passato costituivano un trasferimento di sapere in grado di formare maestranze che erano alla base di molte realtà produttive (fabbri, falegnami, …) . Bisognerebbe essere consapevoli del fatto che perdendo la tradizione di certe abilità pratiche, queste poi si perderanno per sempre.
Il fenomeno Etna è ormai decollato. Cosa c’è da fare e da non fare oggi per mantenere l’attuale trend positivo dei vini Etnei? E poi cosa ne pensi di chi è arrivato da fuori a coltivare sull’Etna?
I pericoli sono quelli legati a chi vede solo il lato del business, che ovviamente non dovrebbe mai trasformarsi nella rapina di un territorio.
Sull’Etna oggi c’è un po’ di tutto con varie tipologie di aziende: persone che seguono leggi un po’ ottuse e altre che non hanno conoscenza della natura delle cose in questo territorio. Ci sono quelli che vogliono avere una giusta attività e custodire il loro territorio, quelli che ne sfruttano solo il nome e quelli che invece qui hanno trovato sul serio la loro casa.
l fenomeno Etna è ormai decollato. Cosa c’è da fare e da non fare oggi per mantenere l’attuale trend positivo dei vini Etnei? E poi cosa ne pensi di chi è arrivato da fuori a coltivare sull’Etna?
I pericoli sono quelli legati a chi vede solo il lato del business, che ovviamente non dovrebbe mai trasformarsi nella rapina di un territorio.
Sull’Etna oggi c’è un po’ di tutto con varie tipologie di aziende: persone che seguono leggi un po’ ottuse e altre che non hanno conoscenza della natura delle cose in questo territorio. Ci sono quelli che vogliono avere una giusta attività e custodire il loro territorio, quelli che ne sfruttano solo il nome e quelli che invece qui hanno trovato sul serio la loro casa.
L’Etna è diventato un po’ l’ombelico del mondo, ma il fulcro di tutto il discorso è: fare vini etnei o fare vini sull’Etna?
L’obiettivo che dovremmo avere un po’ tutti è quello di avere una certa etica ed il rispetto fattivo del territorio e dei suoi abitanti. La normativa poi permette cose che non dovrebbero succedere: per esempio, il triturare la lava vulcanica per farne terreno o rompere le terrazze per farne grandi piani non fa bene al territorio, anzi sovverte l’equilibrio di certe zone vinicole creando i presupposti per drammatici futuri problemi climatici che contribuiranno alla distruzione di questo territorio.
Quindi cosa non fare mai sull’Etna?
I grandi movimenti strutturali sia del terreno sia del patrimonio viticolo, e non solo. Parlo anche di flora e fauna autoctone. La natura ha i suoi tempi, e di norma sono lunghi. Come lo sono anche quelli per l’adattamento di un nuovo vitigno ad un territorio. E allora mi chiedo: perché ciò è qui ora possibile, quando non ci sogneremmo mai di allevare un Nerello Mascalese nella zona dello Champagne o della Borgogna…?
Da produttore etico dovrei voler fare vini etnei, seguendo magari tutta una serie di condizioni tipiche dell’Etna, comprese certe pratiche. Come di sicuro un produttore della Georgia amerà fare il vino in anfora e di certo non nel nuovo stabilimento industriale…
Posso capire che il marketing esiga sempre le sue novità, le sue favole e i suoi personaggi, ma sinceramente non comprendo la gente piena di soldi che decide all’improvviso di diventare contadino. Forse era stufa di avere troppi soldi…? E per di più in soli due anni riesce ad ottenere vini eccezionali…
Ecco, io penso che non basti la passione, ma che le vigne abbiano bisogno di tempo per regalare uve e vini di gran livello, e che un viticoltore necessiti dell’esperienza necessaria per confrontarsi con un territorio nuovo.
Dieci anni, vent’anni… all’estero queste cose te le fanno pesare, in Francia ti dicono che ci vogliono 100 anni per ben comprendere se la zona è vocata. Ora, e senza esagerare, consideriamo però il fatto che di solito ogni innovazione deve essere confortata in un certo lasso di tempo: in fondo, la tradizione non è altro che un’innovazione ben riuscita nel tempo.
Alla fine dove risiede la garanzia per un consumatore?
L’Etna si è prestata a molte situazioni, vecchio come territorio ma nuovo dal punto di vista enologico, lasciando spazio spesso a troppa “creatività”.
Le Contrade, per esempio, sono state viste ed utilizzate da alcuni come operazioni di marketing preferendo a volte fare un IGT di Contrada, mettendo in etichetta le proprie iniziali piuttosto che la denominazione Etna DOC. Ed è proprio qui che viene messa in ballo la propria etica e quella di tutti noi, consorzi compresi. Per non parlare poi della questione dei confini delle 133 contrade che non sono assolutamente definiti come invece in tante altre zone vitivinicole. In Borgogna, per esempio, sono determinati al millimetro ed è così da 350 anni.
È importante rientrare per forza nei confini di una DOC, in un territorio così ricco di potenziale come quello Etneo?
Dal punto di vista della continuità sì, è fondamentale. I confini vanno strettamente mantenuti.
Il progetto di zonazione sull’Etna è ancora in alto mare ma purtroppo richiede tantissimo tempo. Esistono poi situazioni politico-sociali locali: un esempio ne è la zona di Adrano che, nonostante abbia vigne vecchissime, non fu fatta rientrare nei confini della DOC. Bisognerebbe quindi studiare, anche per zone del genere, qualcosa che rendesse loro dignità senza stravolgere ciò che già esiste da 50 anni.
In Sicilia esistono anche DOC ad personam, ma ciò che è legato ad un singolo individuo non rispecchia lo spirito di una civiltà vitivinicola. E’ necessaria lungimiranza senza facili individualismi con il primario obiettivo del rispetto dell’ambiente e delle persone, pur nell’ottica di una propria produttività. Per esempio, se uso il palmento, posso fare vino anche senza elettricità e, in caso di necessità, rimanere così autosufficiente. Inoltre, usandolo sono costretto a manutenderlo, eliminando così la possibilità che si rovini e si distrugga e conservando nel contempo sia la capitalizzazione del lavoro umano sia le necessarie conoscenze per utilizzarlo correttamente. Questa è vera sostenibilità.
Cosa puoi dirmi circa i lavori di zonazione?
Ci sono state delle prime indagini, ma è necessario creare un progetto universitario di ampio respiro ed ottenere molte risorse umane ed economiche: l’Etna non è esaminabile in tempi stretti, oltre ad essere una realtà a volte piuttosto complicata.
Inoltre, non abbiamo purtroppo la possibilità di comparare i vini odierni e quelli di 50 anni fa. Oggi, in nome della biodiversità, è normale che esistano interpretazioni diverse di uno stesso vitigno, ma è altrettanto fondamentale che esista il rispetto della storia del territorio da parte di chiunque voglia produrre vino in questi luoghi.
Insomma, lo slogan di marketing del tipo “Etna, Borgogna italiana” lo ritengo una facile scorciatoia. D’altronde in passato era assai più facile trovare sul mercato piante di Pinot rispetto a quelle di Nerello Mascalese poiché è mancata la selezione massale del vitigno, che richiede tempi lunghi.
Venti anni fa i vitigni locali erano sostituiti ben volentieri: il Mascalese era considerato un vitigno problematico, che andava conosciuto e trattato adeguatamente, mentre uno Chardonnay è ancor oggi ritenuto eccezionale perché in qualsiasi territorio lo collochi, qualcosa di buono te lo dà. I vitigni autoctoni etnei (Mascalese, Cappuccio, Carricante) sono troppo legati a questo territorio vulcanico e al di fuori della loro “casa” hanno difficoltà e rendono male.
Salvo, quando hai iniziato 40 anni fa, cosa ti prefiggevi per il futuro e per quello del vino Etneo? Avevi già in testa gran parte di tutto ciò che stai raccontando?
Ho iniziato con grande passione e tanto orgoglio, con l’intento di continuare al meglio l’attività di mio padre. Si, lo so che può sembrare cosa un po’ ingenua e puerile, ma posso dire che intuivo ciò che sarebbe accaduto. E ho cercato di rendere tutto molto rigoroso attraverso ricerche scientifiche col Prof. Mecarelli dell’Università di Pisa, con cui sono ancora in contatto, e il prof. Rocco di Stefano, direttore dell’Istituto Sperimentale di Enologia di Asti, con cui ho approfondito lo studio dell’impianto ad alberello e del palmento per scoprire se in realtà avessero un loro senso preciso in questo territorio. Io ci ho sempre creduto anche in tempi non sospetti, anche quando negli anni ‘90 mi dissero bruscamente che stavo sbagliando.
Fu allora che mi trasferii per un breve periodo in Australia. Una sera del 1993, mentre discorrevamo, un potatore piemontese di una ditta di Sydney mi disse: “Ma tu pensi davvero che il Nerello Mascalese sarà mai messo in vendita nelle enoteche?” Ricevetti poi le stesse osservazioni anche da parte di degustatori di una nota guida enologica: avevano bollato i vini dell’Etna come imbevibili, scarichi di colore e con troppa acidità; il mio era stato considerato addirittura vino invenduto perché io uscivo sul mercato con quello di almeno due anni prima…
Nel 1986 avevo dunque conosciuto il prof. Rocco Di Stefano, un personaggio super partes in un periodo di grande entusiasmo per l’entrata delle biotecnologie nel mondo del vino: la figura dell’enologo allora compariva solo in laboratorio e in cantina. Di Stefano faceva, invece, discorsi legati al vigneto e in lui avevo finalmente trovato la persona giusta con cui dialogare e ricevere aiuto per i miei progetti. Frequentai così un corso dell’Associazione Enologi a Castelvecchio Pascoli dove appresi che l’uva in vigna se è sana e matura non ha bisogno di altro, se non temere di rovinarla attraverso errati sistemi di vinificazione. Da qui iniziò la mia avventura.
Da giovane enologo, lavorai per 3 anni ad una ricerca finanziata da Giuseppe Benanti (N.d.R. – da considerare il precursore della viticoltura etnea contemporanea): ogni anno prendevo 4000 acini e ne preparavo buccia, polpe e semi per poi procedere alle indagini polifenoliche sulle tre componenti e sulle caratteristiche genetiche dei vitigni di Mascalese, Cappuccio e Carricante. Per esempio quest’ultimo, unico nel suo genere come vitigno bianco nel panorama siciliano, ha un precursore che nel tempo tira fuori quell’aroma di idrocarburo tipico del Riesling. Si è trattato di ricerche comparative svolte in Val d’Aosta e pubblicate su riviste scientifiche, di cui però raramente ho sentito parlare in giro. Ritengo sia invece fondamentale la loro conoscenza da parte di chi produce vino sull’Etna, sia per ragioni vinicolo-storiche sia tecnico-scientifiche: il rispetto del territorio si misura anche da queste cose.
Comunque era il tempo in cui i Cabernet e il Merlot erano considerati vitigni migliorativi rispetto agli autoctoni. Esistevano allora in Sicilia 22 DOC, molte delle quali con un disciplinare che permetteva l’utilizzo di qualsiasi vitigno. Era l’epoca in cui si erogavano finanziamenti pubblici per l’estirpazione delle viti ad alberello, per l’irrigazione e per la meccanizzazione premiando la quantità e la distillazione. Aberrazioni di normativa legislativa europea, azioni contronatura.
Ancora oggi si prendono più contributi dove maggiore è la densità di impianto finalizzata alla maggiore produzione, mentre nessuno ti finanzia un euro per il rifacimento di un muretto a secco, utile non solo per la tua vigna ma anche per quelle che sono a valle, a difesa e conservazione del territorio.
Ora che il mondo finalmente ci guarda, dovremmo iniziare ad agire: è arrivato il tempo in cui il Consorzio, ma anche gli enti regionali e provinciali, agiscano incisivamente con interventi legislativi che mirino veramente alla conservazione e alla sostenibilità senza continui ostacoli ed esose lungaggini burocratiche.
Salvo, parliamo ora della tua azienda, I VIGNERI.
I Vigneri prima di tutto sono un progetto umano in cui alcune aziende hanno condiviso e coinvolto giovani e vecchi viticoltori in nome della salvaguardia delle antiche maestranze e nel rispetto non solo del territorio, ma delle persone. Io opero sempre una distinzione fra i vini dell’uomo e i vini degli uomini.
I VINI DELL’UOMO sono legati solo ad una persona, anche dal punto di vista comunicativo. Spesso si occupa direttamente dei vigneti avendo comunque bisogno di aiuto, a seconda del quantitativo di produzione. Ma quel vino finirà con la scomparsa di quell’individuo.
I VINI DEGLI UOMINI appartengono invece ad un progetto più umano, più allargato. Sono espressione della civiltà del luogo, sono sì i vini di una famiglia ma anche di un territorio. Nonostante l’esistenza di un promotore-coordinatore, sarà comunque sempre essenziale l’esistenza di un gruppo.
Pertanto ci sono 25 persone di maestranza che lavorano per i Vigneri, ma anche per Federico Graziani, per i Custodi delle vigne dell’Etna e per un’altra vigna che gestisco. Simone (n.d.r. – il figlio maggiore) già lavora con me, mentre Andrea si è laureato a dicembre in Enologia a Milano : questo garantirà la continuità dell’azienda e del progetto globale. Oggi mi ritengo assai fortunato per il fatto di poter avere una visione progettuale di ampio respiro, che tra l’altro rappresenta per gli importatori un fattore di garanzia di continuità e sicuro posizionamento sul mercato.
A differenza di un tempo, oggi la gente ama venire a vedere come lavori, entra nel vigneto, si sporca i piedi nel camminarvi per cercare di osservare e comprendere meglio le origini di un vino. E tutto questo stimola il produttore a ricercare la bellezza, che consiste nel tenere in ordine la vigna al fine di ricevere al meglio gli ospiti, proprio come accade per le nostre abitazioni. L’insieme di tanti produttori dai comportamenti virtuosi produrrà così un territorio altrettanto bello e curato e ciò costituisce per me la vera etica vinicola e territoriale.
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E’ vero, l’Etna si presta bene ad una condivisione del genere. Perchè la sua bellezza è veramente contagiosa.