Search on this blog

di Daniela De Morgex

Quella di Suavia è una storia fatta di un castello, nessun ranocchio, pochi principi e molte principesse.”

E sì, le belle storie sempre più spesso iniziano così, anche nel vino. Come questa di tre sorelle e della loro nuova avventura in quel di Soave.

Già il nome stesso dell’azienda ci colloca in un territorio ben preciso, dove la viticoltura non è nata ad opera di grandi famiglie imprenditrici, proprietarie di grandi tenute, ma piuttosto di tanti piccoli viticoltori, molti dei quali sono oggi soci di cooperative. Questo particolare è importante perché spiega la notevole parcellizzazione di questo territorio. Ma è proprio in questo aspetto che risiede il lato interessante della storia: ogni proprietà possiede vigneti con diversità di altitudine, di esposizione e di suoli che si riflettono poi nella produzione.

L’azienda Suavia di Alessandra, Meri e Valentina Tessari ha voluto indagare in maniera specifica la situazione dei terreni proprio nelle zone in cui sono situati i loro 30 ettari vitati, molto parcellizzati – addirittura in 11/12 posizioni diverse con differenti esposizioni – nella zona nord-est delle Colline del Soave. Qui i suoli sono di origine prettamente vulcanica, a differenza della zona nord-ovest dove risultano decisamente calcarei, tanto da essere definiti paleosuoli perché originati 50 milioni di anni fa da una serie di attività eruttive esterne e sottomarine.

È partito così un progetto innovativo per la denominazione Soave in quanto focalizzato sul concetto di Cru e di Uga,  le Unità Geografiche Aggiuntive inserite nella denominazione nel 2019, aree appartenenti alla zona storica e quindi più vocata della viticoltura del Soave.

L’azienda ha tutto il corpo produttivo situato in altitudine nonché la fortuna di avere la cantina a breve distanza: ciò ha permesso loro, nonostante le lavorazioni particolarmente impegnative in vigna, di poter operare durante la vendemmia tante microvinificazioni riuscendo così a poter scoprire e comprendere le diverse espressioni provenienti dai piccoli vigneti. L’inserimento delle Uga ha fornito loro un elemento decisamente utile su cui lavorare dal momento che, gestendo ogni parcella quasi singolarmente, ne hanno meglio osservato i risultati.

Le tre sorelle hanno deciso quindi di sperimentare un qualcosa che io ho chiamato il gioco dei suoli: hanno raccolto le uve nello stesso momento, vinificato e affinato nella stessa maniera (usando anche le stesse identiche regole agronomiche con l’intento di azzerare la variabilità del fattore umano), lasciando poi giocare insieme le variabili fisse e cioè gli eventi climatici, le caratteristiche dei suoli, le esposizioni e le altitudini.

In pratica l’obiettivo era produrre vini in cui fossero solo i luoghi a parlare, in particolar modo i suoli. E’ stato anche interpellato un geologo veronese, il prof. Giuseppe Benciolini, che negli ultimi vent’anni ha seguito la zonazione del Consorzio del Soave, e con lui si è fatta ricerca pedologica in tre zone scelte dalla proprietà. Sebbene fossero tutte di matrice vulcanica, si è notato subito che avevano composizioni molto differenti pur essendo collocate in un’area ristretta di soli 3 Km e mezzo . 

Il progetto aziendale, denominato I Luoghi, riguarda dunque la produzione di tre vini da vitigno Garganega in purezza e i tre luoghi sono Fittà, quello più vicino alla cantina, Tremenalto e Castellaro, nei quali si è potuto osservare l’adattamento e la diversa risposta delle viti ai vari suoli e posizioni.

Fittà è l’impianto più antico, ha esposizione SE ed un suolo profondo (fino a 2 metri senza roccia), ma prettamente argilloso, che trattiene bene l’acqua pur con la tendenza ad essere un pò asfissiante per le radici.

A 2 km di distanza, e circa 200 mt di altitudine con esposizione settentrionale, si trova Castellaro, suolo ricco di scheletro poco fruibile dalle viti (a 80 cm è stato trovato un roccione di basalto quasi inespugnabile). Si parla di un terreno magro, più ossidato, ricco di minerali e molto più drenante, ma essendo esposto a nord anche con temperature più basse.

Infine Tremenalto, esposto ad ovest ad un’altitudine più bassa, a due metri di scavo presenta una colorazione rosso cupo del terreno, con assenza di argilla: un ambiente molto evoluto ed ossidato e quindi molto ricco di nutrienti.

Cosa si è dimostrato? Che parlare di terreno vulcanico in maniera generica è assai limitante: mentre un terreno calcareo risulta abbastanza prevedibile durante uno scavo, non lo è invece un terreno vulcanico, più affascinante e ricco di aspettative per un tecnico essendosi costituito in maniera scomposta attraverso il trascorrere del tempo e degli eventi geologici.

Anche i tre vini prodotti si presentano estremamente differenti fra loro, specialmente dal punto di vista organolettico, pur con lo stesso grado alcolico di 12,5 gradi. Le uve intere hanno ricevuto una pressatura soffice, poi solo il mosto fiore è stato inserito in vasche d’acciaio e lasciato riposare sulle fecce fini per un anno con periodici rimontaggi, infine affinato in bottiglia per 2 anni, con tappo a vite. 

Questi vini dell’annata 2020, a tiratura limitata di 2000 bottiglie per etichetta, vengono oggi presentati in un bel packaging, una scatola che li raccoglie tutti e tre per offrire un’esperienza comparativa di degustazione, rivelatasi molto intrigante.

Premettendo l’eleganza ma anche la gastronomicità di questi vini , il Fittà, dalla prevalente nota dolce di mela golden stramatura con sentori di tropicale, si presenta molto intenso, sapido e fresco, mentre il Castellaro offre all’olfazione rosmarino e menta fresche, con un sorso, meno sapido, ma equilibrato ed agile, leggermente ammandorlato, di grande beva. Il Tremenalto appare il più complesso, con note di pietra focaia e pesca matura che accompagnano un deciso gusto di litchis