Le Marche sono state da sempre una regione caratterialmente un pò schiva, che ha preferito vivere tranquillamente immersa nelle sue tradizioni salde e rurali nonché operose e produttive. La sua agricoltura, basata sulla mezzadria, ha creato in passato un forte legame con la terra ed ormai vive una seconda vita ed un nuovo sviluppo grazie alle nuove generazioni di agricoltori, con nuovi criteri basati sulla sostenibilità e la salvaguardia dell’ambiente e della biodiversità.
Nelle Marche è dunque subentrata una nuova concezione di fare vino che ne ha innalzato il livello sotto molteplici aspetti, primo fra questi quello qualitativo, grazie anche al sostegno fattivo del Consorzio IMT – Istituto Marchigiano Tutela vini. Bisogna riconoscere che la regione è stata comunque sempre orientata verso un approccio biologico ed ora lo spirito di cooperazione e la volontà di conservare la memoria della terra d’origine stanno facendo il resto.
Vediamo qualche numero. Nelle Marche vi sono venti denominazioni (15 DOC e 5 DOCG) ed una Indicazione geografica tipica (IGT) per un comparto che conta attualmente quasi 160 milioni di euro di fatturato: parliamo di quasi 12.000 aziende e 17.000 ettari complessivi di vigneto, di cui circa 4.500 interessati da ristrutturazioni e rinnovamenti degli impianti negli ultimi 12 anni.
Nelle Marche è dunque subentrata una nuova concezione di fare vino che ne ha innalzato il livello sotto molteplici aspetti, primo fra questi quello qualitativo, grazie anche al sostegno fattivo del Consorzio IMT – Istituto Marchigiano Tutela vini. Bisogna riconoscere che la regione è stata comunque sempre orientata verso un approccio biologico ed ora lo spirito di cooperazione e la volontà di conservare la memoria della terra d’origine stanno facendo il resto.
Vediamo qualche numero. Nelle Marche vi sono venti denominazioni (15 DOC e 5 DOCG) ed una Indicazione geografica tipica (IGT) per un comparto che conta attualmente quasi 160 milioni di euro di fatturato: parliamo di quasi 12.000 aziende e 17.000 ettari complessivi di vigneto, di cui circa 4.500 interessati da ristrutturazioni e rinnovamenti degli impianti negli ultimi 12 anni.
La vendemmia 2020 dei vini marchigiani ha raggiunto una quota di produzione di 888.000 ettolitri contro gli 816.000 dell’anno passato, un’annata quindi decisamente positiva. Ma secondo dati Istat, dopo anni di crescita ininterrotta, sempre nel 2020 l’export del vino marchigiano ha subito una contrazione del 14,5% dovuta agli effetti della pandemia che hanno inciso sulle vendite all’estero, in particolare sui vini di alta gamma che sono stati penalizzati dalle ripetute chiusure del canale HoReCa. Tuttavia, nella classifica dei principali buyer, rimangono in cima al podio gli USA, seguiti da Germania, Svezia, Giappone e Regno Unito e, secondo Valoritalia, l’imbottigliato 2020 del Verdicchio dei Castelli di Jesi ha mantenuto un segno positivo del 7,4%.
L’azione dell’IMT è stata determinante. Con 652 aziende, associate per 16 denominazioni di cui 4 DOCG, questo maxiconsorzio rappresenta l’89% dell’imbottigliato ed il bel gioco di squadra che ha coordinato ha contribuito al rilancio del brand Marche, anche in maniera sostanziale con investimenti di oltre 3 milioni di euro.
Certo, quando si parla di Marche si pensa subito al Verdicchio, vitigno autoctono capace di essere bevibile nell’immediato ma anche di poter affinare splendidamente, tanto da renderlo, lo scorso anno, il vino bianco più premiato d’Italia.
In occasione dell’evento dedicato al Verdicchio di Matelica, organizzato a cura dell’IMT e tenutosi con noi giornalisti in remoto da STUDIO MARCHE (l’hub digitale del food&wine voluto da Regione Marche e firmato da IME e dall’Enoteca regionale di Offida), si è approfondita la situazione attuale di questa denominazione relativa ad un vino che detiene il primato del potenziale di invecchiamento fra i Verdicchi.
Si sa, le Marche sono una storia fra montagna e mare. I caratteri di entrambi anche nei loro abitanti. Boschi di aceri e spiagge bianchissime.
Ricordo la mia prima volta al Conero, ospite del Fortino Napoleonico a Portonovo, una struttura alberghiera sui generis: un vero fortino ottocentesco con una splendida terrazza sul mare dove assaggiai il mio primo Verdicchio di Matelica Riserva de La Monacesca, e fu colpo di fulmine.
Ma in un territorio prevalentemente collinare come quello marchigiano, la zona del Matelica DOC si distingue in quanto situata nell’unica valle marchigiana, l’Alta Vallesina, con una disposizione Nord-Sud: in pratica un posizionamento parallelo rispetto al mare, la cui azione mitigante crea un microclima diverso rispetto a tutte le altre vallate regionali, e cioè continentale nelle ore notturne – e quindi capace di preservare al meglio l’acidità delle uve – e mediterraneo durante il giorno, con un irraggiamento utile al contenuto zuccherino delle stesse. Aggiungiamo anche le variabili dei terreni calcarei e dell’altitudine dei circa 100 ettari di vigneti tra i 400 e gli 850 metri sul livello del mare (fra l’altro tra i più “ristrutturati” negli ultimi anni) ed ecco il motivo delle caratteristiche peculiari ed identificative dei vini di Matelica, prodotti in un comprensorio di otto comuni nelle province di Macerata ed Ancona da sole 26 aziende per la DOC e 7 per la DOCG (Riserva).
Esiste oggi un coraggioso progetto, in via di compimento, dell’Associazione Produttori del Verdicchio di Matelica che riguarda il cambiamento del nome della DOC, una variazione che implica la mutazione del concetto di comunicazione della qualità: da “Verdicchio di Matelica DOC” a “Matelica DOC Verdicchio” significa decidere di comunicare un territorio prima di comunicare un vitigno, significa mettere avanti la qualità e la vocazione di una zona, come è successo per altri territori più famosi (basti pensare alla Champagne…). Per attuare un cambio di strategia comunicativa del genere, che punti pertanto a promuovere l’eccellenza generale di un territorio, ritengo sia però necessaria anche una forte comunicazione esplicativa del termine Matelica al grande pubblico dei consumatori (ebbene si, perché al ristorante ancora in pochi conoscono la differenza tra il Verdicchio dei Castelli di Jesi e quello di Matelica: il Verdicchio è Verdicchio).
Trovo anche che, come per alcuni altri vini italiani, l’alta qualità del prodotto debba esigere un livello di prezzi più alto rispetto all’attuale. E questo proprio nell’ottica di quella “moltiplicazione delle occasioni di internazionalizzazione organizzate da IMT attraverso i fondi cofinanziati in Europa e nel mondo” auspicata dal suo Direttore, Alberto Mazzoni.
Lo stesso Mazzoni evidenzia da tempo anche un’altra questione, quella della produzione in regime biologico: i consorzi italiani non sarebbero oggi in grado di monitorare il trend di un modello produttivo sempre più richiesto dal consumatore. Le Marche, tra le regioni più bio in Europa in rapporto alla superficie vitata, hanno da poco siglato il Patto per il distretto biologico unico che diventerà la più grande area europea attenta allo sviluppo della sostenibilità. Hanno inoltre chiesto di fare da apripista in ambito nazionale, anche in chiave di monitoraggio, mediante una banca dati su produzione e vendita dei vini biologici considerata una scelta strategica per far crescere questa best practice.
I Verdicchi di Matelica DOC degustati durante l’evento di Studio Marche sono stati vini dotati, chi più chi meno, di ottima struttura, buona ampiezza olfattiva e, grazie al loro particolare terroir, anche di una fragrante acidità e mineralità con il tipico finale ammandorlato: i cosiddetti vini “di carattere e longevità”, anche se ultimamente, a causa della contingenza sanitaria, le logiche di sopravvivenza dei produttori stanno avendo la meglio sugli affinamenti particolarmente lunghi.
Ed infine, con l’Azienda Tenuta Colpaola di Matelica (ma ve ne sono anche altre che ne fanno uso), ecco finalmente apparire scelte diverse nella chiusura delle bottiglie, atte ugualmente a preservare la splendida aromaticità di questo vitigno. Parliamo dei tappi a vite.
Il produttore può ormai scegliere in base alla tipologia di vino quanto ossigeno far passare dal suo tappo, da apporti minimi quasi vicini allo zero sino a livelli più alti equiparabili al sughero: quindi una bassa, media e alta permeabilità a salvaguardia anche di questi vini a bacca bianca, per accompagnare la loro naturale longevità.
Così pratici perché richiudibili, i tappi a vite possono essere anche una garanzia ulteriore quando hanno sul lato superiore il tag NFC, che crea una connettività senza fili e che ci indica, passandoci sopra lo smartphone, la provenienza e altre caratteristiche di cantina. Preservando molto bene aromi e freschezza, sono ormai spesso usati al nord Italia e ancor di più al nord Europa (basti pensare ai Riesling alsaziani).