Ci sono regioni in Italia assai frequentate e conosciute, altre invece poco narrate ma non per questo meno affascinanti.
Il Lago di Garda ne è in parte un esempio: le sue rive meridionali sono molto visitate dai turisti italiani che si spingono invece meno frequentemente verso la sua porzione settentrionale, il cosiddetto Garda Trentino, un territorio in grado di farti collezionare una bella serie di ricordi di varia natura, a volte gustosi, a volte insoliti o scenografici, comunque sempre particolari.
Qui il clima mediterraneo incontra le Alpi così come il gusto mitteleuropeo incontra quello italiano. Qui crescono bene la vite e l’olivo, che danno vita a prodotti tradizionali come l’aceto balsamico trentino, il vino santo, distillati e grappe e l’olio del Garda da varietà Casaliva, una delle produzioni olearie più nordiche e pregiate esistenti grazie proprio alla coesistenza dei climi mediterraneo ed alpino, caratteristica locale. Ma anche altre eccellenze enogastronomiche come miele, formaggi, zafferano, tartufo nero, il broccolo di Torbole per non parlare del pesce di lago come trote, lavarelli, carpioni, e della trota marmorata ed del pregiatissimo salmerino alpino qui pescato nel fiume Sarca.
Ma andiamo per ordine, partendo da Riva del Garda dove si respira un passato mitteleuropeo ed un presente che sa di rigorosa eleganza: penso alla bicolore pavimentazione della piazza del porto vecchio o alla pittoresca piazza delle Erbe. I Veneziani eressero qui una fortezza a difesa della città, il Bastione (raggiungibile oggi con due minuti di ascensore panoramico), ma solo salendoci ne comprendi il perché: da qui si domina tutto il versante trentino del lago e la cittadina di Riva, una terrazza mozzafiato su cui si può cenare o anche semplicemente gustare un aperitivo.
Tra Riva ed Arco nobili villeggianti venivano a soggiornare in vacanza, compresa la Principessa Sissi imperatrice d’Austria, avendo anche modo di assistere allo spettacolo naturale delle Cascate del Varone, visibili con un percorso interno alla montagna e addirittura presenti nel romanzo di Thomas Mann “La Montagna incantata”. Vicino alle cascate si incontra ancor oggi una cartiera fondata nel 1938 che, grazie alla purezza di queste acque, produce la bella carta Fedrigoni.
A 5 chilometri da Riva troviamo Arco, il cui nome deriva dal latino arx (rocca, fortezza) e non, come si pensa, dalla forma della cittadina che disegna un arco alla base della rupe del castello. Arco è oggi la “casa” del climbing, un centro attrezzatissimo che accoglie i giovani appassionati della scalata verticale su roccia provenienti da tutto il mondo. Se cercate una cucina casalinga ma curata, capace di offrire piatti della tradizione locale a base di pesce di lago mi sento di indicare sicuramente Le Servite, una tranquilla osteria ricavata da un antico convento affacciato su vigneti.
Per concedersi invece una diversa esperienza gastronomica, decisamente più intrigante, ci si può spostare a Dro, da Peter Brunel, rinomato chef che ama trarre ispirazione per la sua cucina dal mondo dell’arte e dell’architettura: membro della Nazionale Italiana Cuochi, ha esposto le proprie opere di food design alla mostra “The New Italian Design” tenutasi ad Istanbul e poi proseguita a Pechino e negli USA. Aperto nel 2019, il suo locale si è subito aggiudicato una stella Michelin e lo scorso anno anche un premio speciale per il servizio di sala.
La mia esperienza è stata veramente piacevole, con la sua costante presenza al tavolo al momento della presentazione di ogni piatto e la proposta di un esclusivo assaggio di Parmigiano di 15 e 18 anni di stagionatura.
In Italia ogni regione ha i suoi vitigni ed i suoi vini, dai più pregiati a quelli più semplicemente legati alla tradizione locale, e dunque anche qui nel Garda Trentino esistono diversi vitigni autoctoni tra cui uno in particolare, la Nosiola, vinificato sia fermo che spumantizzato e da sempre utilizzato per la produzione del Vino Santo Trentino DOC, che nulla ha a che fare col Vinsanto toscano. Si tratta di un vino dolce da uve appassite per sei mesi sulle “arèle” grazie al vento Ora del Garda, poi pigiate durante la Settimana Santa pasquale e quindi lasciate in affinamento in botte per almeno 5 anni e poi in bottiglia: una produzione limitatissima riconosciuta come presidio Slow Food e che possiede un’ “etichetta narrante” grazie ad un progetto che racconta il prodotto, il produttore e tutta la filiera. E’ un passito che detiene il primato di invecchiamento nella categoria.
Il Vino Santo Trentino è identitario di una specifica zona del Garda Trentino, la Valle dei Laghi, situata fra le Dolomiti del Brenta ed il nord del lago. La tradizione di questo vino, rinata negli anni’70, viene oggi mantenuta da un gruppo di 6 vignaioli che hanno dato vita all’Associazione Vignaioli del Vino Santo Trentino: parliamo delle aziende Maxentia (il cui proprietario Ivo Poli ne è anche il Presidente), Gino Pedrotti, F.lli Pisoni, Francesco Poli, Giovanni Poli e Pravis.
Il percorso sul territorio del Vino Santo si snoda dal parcheggio del Lago di Santa Massenza alla Piazzetta del Mercato di Padergnone, attraverso un itinerario culturale e naturalistico che comprende le cantine dei sei produttori e i vigneti della Nosiola, degradanti verso il fondovalle e contenuti da antichi muretti a secco: un itinerario ad anello attraverso la grande quiete di questo paesaggio, in un intreccio di specie arboree montane come pini, abeti e faggi, e specie mediterranee come i lecci e gli olivi della sponda nord del lago .
Il sacerdote, storico e cronista dell’epoca del Concilio di Trento, Michelangelo Mariani, già nel 1546 definiva il Vino Santo “il vino dolce di Santa Massenza”, ma solo nel 1822 questo fu prodotto a scopo commerciale dalla cantine dei conti Wolkenstein del Castello Toblino. Si tratta di un vino storico, un vino “corale” alla cui produzione hanno concorso gli abitanti della valle nel corso di intere generazioni. Dobbiamo però giungere ai nostri giorni (1976) per assistere alla nascita del Consorzio per la Tutela e valorizzazione del Vino Santo classico trentino: entrando a far parte della DOC Trentino, sono stati meglio definiti anche i luoghi di produzione che sono i comuni di Calavino, Cavedine, Lasino, Padergnone e Vezzano. Attualmente il Consorzio è stato sostituito dall’Associazione Vignaioli del Vino Santo Trentino.
Il circuito si conclude a Padergnone nella Casa Caveau, frutto di un progetto di riqualificazione del vecchio appassitoio comune, finanziato dal GAL Trentino Centrale, che ha anche messo in rete le cantine dei sei produttori attraverso la sentieristica secondaria che percorre le zone dei coltivi. Si tratta di un luogo suggestivo ed esperienziale dove poter conoscere meglio questo passito, grazie all’allestimento multimediale presente, attraverso voci narranti, suoni, immagini, profumi e gusto.
Ma i Vignaioli del Vino Santo non si sono fermati qui.
Undici anni fa hanno creato un nuovo progetto, sempre sulla base della tradizione locale dell’appassimento delle uve: parlo del Rebòro, un vino rosso IGT Dolomiti la cui produzione si assesta oggi sulle 7.000 bottiglie all’anno. Un vino di struttura che al naso è ciliegia e confettura di piccoli frutti rossi, miele, cioccolato, spezie, appena balsamico e leggermente agrumato; al sorso risulta morbido e molto persistente. Un vino di montagna, figlio del vento e del lago, che nasce da un vitigno autoctono, il Rebo, risultato dell’incrocio fra Merlot e Teroldego operato negli anni ‘50 dall’agronomo-genetista dell’Istituto Agrario di S. Michele all’Adige Rebo Rigotti, da cui appunto prende il nome. Il Rebòro, dopo lunga macerazione delle sue uve appassite, affina almeno tre anni in botti di rovere.
E’ un vino che racconta la storia di una tecnica tradizionale locale e lo fa ogni anno in una manifestazione pensata come occasione di incontro/confronto fra produttori vinicoli con caratteristiche comuni (tecnica e gradazione alcolica) ma territori diversi: “Rebòro, territorio e passione” è quindi un appuntamento annuale che in questa edizione ha ospitato la denominazione del Buttafuoco storico in Oltrepò Pavese, a cui però stavolta è accomunato maggiormente da un progetto di “marchio”, cioè d’identità territoriale.
Il Butafeug (“che butta il fuoco dentro”) è un vino potente, austero, antico, al mantenimento della cui memoria ha contribuito e operato in senso migliorativo il Club del Buttafuoco storico, poi divenuto Consorzio, sorto nel 1996 dall’unione di 11 viticoltori e che ha delimitato a 7 comuni dell’Oltrepò Pavese i luoghi di produzione. Oggi gli affiliati sono diventati 17, sempre con l’intento di collaborare nella produzione, tutela e valorizzazione di questo vino davvero unico e con regole di produzione più severe di quelle della DOC Buttafuoco. Alla vinificazione del Buttafuoco storico contribuiscono, oltre alla Barbera e all’Uva rara, la Croatina, un’uva caratterizzata da tannini molto elevati (basti pensare che è al secondo posto fra le uve più tanniche, subito dopo il Sagrantino…!), contenuti all’80% nella sua buccia; e la Vespolina o Ughetta, assai speziata, che contribuisce al ventaglio aromatico finale col suo spiccatissimo sentore di pepe nero, ancor più del Syrah. Le uve devono provenire da un singolo vigneto indicato poi in etichetta, quindi vinificate congiuntamente; segue un affinamento di almeno 12 mesi in botti di rovere e almeno 6 in bottiglia. Aggiungo che le bottiglie hanno impresso a rilievo il “marchio del veliero” e riportano un bollino numerato con la classificazione qualitativa dell’annata espressa in “fuochi”, assegnata alla cieca da una commissione enologica. E con l’annata 2021 è iniziata la produzione de “I Vignaioli del Buttafuoco storico”, nata dall’assemblaggio di vini da vigne storiche e firmata ogni anno da un differente enologo.
Durante la manifestazione si è tenuto un convegno a tema “Qualità e certificazioni. Il vino tra disciplinari e produttori”, presso l’Antica Distilleria da Lorenzin di Giovanni Poli a Santa Massenza, con la partecipazione del prof. Fulvio Mattivi della Fondazione Mach, del titolare dell’agenzia di distribuzione Proposta Vini, Gianpaolo Gilardi, e di Alessandro Torcoli, direttore di Civiltà del Bere, a perfetto moderatore, dove la discussione ha interessato diversi aspetti inerenti il tema del brand e dell’identità. Dal punto di vista del marketing, è stata sottolineata sia la necessità di raggiungere una massa critica importante nell’ambito dell’Associazione, cioè un consistente numero di produttori tale da poter adeguatamente investire nella promozione di un marchio, sia l’importanza di creare sul mercato un marchio collettivo capace di veicolare la volontà comune di un’associazione di produttori a fare insieme qualcosa di nuovo.
In questo caso esiste un marchio fortunato perché racchiude già nel nome del vino tutte le sue componenti identitarie, Rebo (il vitigno) e Oro (per assonanza il vento Ora, artefice dell’appassimento delle uve), ma in genere resta determinante la scelta della tipologia di comunicazione nonchè l’organizzazione della stessa nel lungo termine. Fondamentale viene considerata da Gilardi l’esaltazione della precisa zona di produzione, a costo di riprodurre in etichetta le mappe dei singoli cru, perché ciò viene percepito, per sua esperienza, come fattore di serietà professionale.
Da questo punto di vista Rebòro e Vino Santo Trentino sono un esempio di coniugazione perfetta fra i concetti di identità e territorio, cioè tradizione e riconoscibilità + zona di produzione ben delimitata. Si è ugualmente auspicato un più stretto legame tra l’Associazione vignaioli e quella alberghiera del territorio Valle dei Laghi dal momento che il miglior Ambasciatore di un vino sembra essere proprio il personale di sala, nella ristorazione.
D’altro canto, si è anche criticato il meccanismo del pairing come elemento limitante della vendita e diffusione del vino in genere: la sommellerie italiana oggi si pone con grande rigidità sul tema, a differenza di quella francese che tende solo ad evitare posizioni estreme, e di quella inglese che invece è assolutamente favorevole agli abbinamenti gastronomici liberi.
La Fondazione Mach (prof. Fulvio Mattivi) ha ricordato il Rebo come un vitigno in passato bistrattato, scoperto nel 1948 e iscritto nel Registro nazionale solo 30 anni dopo; ed anche al tempo del riconoscimento della denominazione DOC Trentino, la tecnica dell’appassimento fu attribuita solo al Marzemino quando invece era già da tempo in uso anche per il Rebòro…
Il Rebòro è comunque oggi un vino riconoscibile e lo step successivo sembrerebbe diventare allora quello del come far convivere al meglio i tre fattori cardine di un vino, e cioè la riconoscibilità, l’identità e la tipicità: è giusto o no posizionarsi oggi nella media nella sua produzione?
La tematica è assai frequente in varie zone del mondo: in quale maniera l’identità, cioè la capacità di essere chiaramente riconosciuti nello stile, può riuscire a coniugarsi con la tipicità, che invece definisce le caratteristiche di una certa denominazione in un certo territorio? Eliminando eccessi ed estremismi, ogni produttore dovrebbe potersi esprimere al meglio nell’ambito di una standardizzazione da parte dei consorzi che operi senza compromessi e puntando verso l’alto.
A seguire, la masterclass di degustazione di 8 referenze, di cui 6 di Rebòro e 2 di Buttafuoco storico, ha evidenziato la grande dinamicità dei vini presentati: il Rebòro 2015 dell’Az. Maxentia e il Rebòro 2011 dell’Az. F.lli Pisoni si sono rivelati particolarmente interessanti, il primo per un sorso caldo ma di grande equilibrio nonostante l’alta gradazione alcolica di 16° (assolutamente non percepita), ed il secondo per un bel naso di eucalipto e china ed una decisa morbidezza e sapidità nonostante la difficile annata.